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le 20 tesi d'arte

Arte romantica

1966 - testo e disegni di
                              Ivonne Favro

                    Il Fontanesi - L'Aprile

                     
Benchè nato a Reggio Emilia il 23 febbraio del 1818, Antonio Fontanesi è considerato il maggiore dei paesisti piemontesi.

Nel 1833 prese a frequentare la scuola comunale di belle arti di Reggio Emilia sotto la guida di Prospero Minghetti, poi nel 1847 si trasferì a Ginevra dove rimase, salvo temporanee assenze per viaggi in Europa, fino al 1867.
A Ginevra frequentò la scuola di Calame poi tenne studio per proprio conto; a Firenze, alla prima esposizione nazionale del 1861 conobbe i Macchiaioli; nel Delfinato si legò d'amicizia col Rivier e con lui fece parte del gruppo Lionese del Cremieu.
Ritornato in Italia nel 1868 fu nominato direttore e insegnante all'Accademia di Lucca, ma subito dopo, nNel 1869, gli venne affidata la cattedra di Paesaggio all'Accademia Albertina di Torino per sette anni. Nel 1878 si ammalò, morì nel 1882 e fu sepolto nel Cimitero Monumentale di Torino senza aver ricevuto grandi riconoscimenti in vita.

Elaborando, agli inizi della sua attività, gli elementi di una cultura tradizionale, quindi accresciutosi per intelligente osservazione delle opere oltre che del Colonne, del Ravier, del Trovon, del Corot, del Turner e del Constable il Fontanesi oggi giustamente si pone fra i maggiori pittori romantici di paesaggio, non solo d'Italia, ma d'Europa.
Nelle sue tele il semplice motivo di un gruppo di alberi, di un cielo grigio, d'un tramonto, rivelano una visione ampia, commossa e altamente poetica della natura. Opere che sentì profondamente meditate, ciò non solo nei misurati rapporti dei vari elementi del paesaggio e delle immagini che lo abitano, ma nella distribuzione delle luci, nelle gradazioni dei toni e del loro valore, nella stessa fattura a volte estremamente circospetta e complicata di tinte e velature. Nel 1876 scrivendo a un suo allievo raccomandava:"Si ricordi .... se le arti non avessero altra missione che di rappresentare e di riprodurre la natura, esse non si eleverebbero al di sopra del senso comune e la vita allora avrebbe nè ideale nè poesia". Poesia dal vero egli chiamava la sua.

La Poesia autentica, se Dio vuole, rompe tutti i silenzi, dissipa tutte le tenebre, gradualmente, senza sbalzi e anche se non immediatamente dopo la morte conosce i fenomeni di gloria e fuoco d'artificio tipo Modigliani (1884-1920), per il Fontanesi ha avuto una ascesa molto lenta ma di un valore duraturo.

Nell'Aprile, uno dei suoi tesori, la Poesia si fa lirismo, emozione attraverso la quale, di colpo, il soggetto naturale appare trasfigurato di una rielaborazione spesso faticosa e laboriosa, quasi dolorosa.
Aprile, un mese molto amato da Fontanesi.

La storia di questa grande tela, 1,71 x 2,55m, è complessa. Dichiarato inizialmente come "il mattino" fu criticato e stroncato soprattutto da Telemaco Signorini, allora, Fontanesi, continuò a trasformarlo per quasi tre anni consecutivi e nel 1873, quando la sua tavolozza si era già trasformata con tonalità scure e con contrasti luminosi, lo espose a Vienna con il permesso del Museo civico di Torino, proprietario del quadro.
Questo quadro si può descrivere come albero spoglio, spazio infinito con il senso del nudo, la "nuvola" e la fredda luce primaverile.

Ma 10 anni prima, nel 1864, dipinse "Aprile. Sulle rive del lago del Bourget, in Savoia". Un quadro ben diverso.
La natura è ancora dormiente ma, in procinto di espodere, si presenta serena e fa presagire la futura primavera. Due rappresentazioni differenti, ma in ambedue si coglie struggente malinconia per questa stagione di passaggio.
    In questo quadro, Aprile, la sensibilità cromatica, talora eccessiva, si placa con        
la meditazione e lo sforzo; il rapporto tra realtà e fantasia trova una sua misura, una sua metrica che è commozione poetica.
Nell'Aprile, in cui la misteriosa doglia della natura destata dalle Ninfe primaverili e tutta la sofferenza di ciò che ricomincia a vivere dopo l'oblio, sono espresse nel contrasto fra l'orizzonte tenero, il pesco in fiore, l'albero tragico con la famosa nuvola nera d'un ardire e d'una drammaticità che bisogna risalire al genio chiaroscurale di Rembrandt (1606-1669) per trovare confronti. E' questo modo di sentire la natura, questo lento progredire come una catarsi, una sublimazione che riesce a portare su un piano di pura contemplazione la materia e lo spirito.
Questo è lo spirito e il carattere tipici della grandezza del Fontanesi, quella genialità pittorica e poetica che lo ascrive, tenendo conto della statura, alla stirpe dei Rembradt, dei Magnasco, dei Lonerese, dei Guardi, dei Ruysdael, dei Turner.
Ogni contatto con la natura era per lui una continua riscoperta dei valori più sublimi nelle sue bellezze più maestose, più ampie, più infinite. Il suo entusiasmo era contagioso perchè univa alla contemplazione del Creato ciò che di migliore aveva saputo dare l'uomo ... la Poesia ... la Musica ...
Questa scoperta mirava a rinvenire in essa e a rendere plasticamente le vibrazioni più tenui, più lievi di note delicate, di accenti di vigore di potenza cosmica. Il carattere di codesta poesia contemplativa che si riscontra in tutte le sue opere e nell'Aprile non deriva tanto dal fatto pittorico, come tecnica e stile, quanto nel fatto evocativo del soggetto e trasfigurativo della realtà così come, per Leopardi (1798-1837), non si parte dalla civiltà del verso, dal fenomeno metrico, perfetto o mediocre che sia, ma vi si giunge e se ne fa l'analisi, se ne rintraccia il meccanismo sbalorditivamente semplice soltanto dopo aver assimilato la suggestione del fantasma lirico.

Per Fontanesi, instancabile creatore di tecniche, elaboratore di temi, fulmineo precisatore di particolari, in pittura il mezzo è nulla, il fine è tutto. Tutto in Fontanesi è nativo e deriva dal sentimento, dalla sensazione, e se in lui alcunchè si rintraccia di trascendentale ciò è dovuto a una segreta aspirazione al Divino: al Divino naturale s'intende.
Nell'Aprile ciò che conta non è più l'elemento pittorico, la forma, il colore, sono questi semplici strumenti miracolosamente impiegati all'espressione di quella suggestione. Tutto può diventare eccellente pretesto all'evocazione di un sentimento della natura impassibile, indifferente. ora una velatura imponderabile che stende sull'orizzonte una indicibile tenerazza, ora una impostazione di bruni fulvi sul terreno, di toni terrosi, ora un fulmineo tocco per la figuretta assorta, per l'animale al pascolo; ora una pennellata soave, calmissima, che emana da quella nuvola con silenzioso mistero, ora quel tocco scuro, cupo che crea bellissimo contrasto col sentimento provato poc'anzi.
Se ci si avvicina al bozzetto è una febbre, una concitazione convulsa, inutile cercare di separare, di distinguere e inseguire la pennellata, di studiare la direzione e la forza. Mai la pennellata si ripete, mai il colore obbedisce ad una regola fissa, predisposta, ma basta distanziarsi di qualche passo e ogni tinta, ogni valore incantevolmente si ordina sulla superficie, la materia pare volatilizzarsi, la verità del particolare si confonde in una verità superiore e diversa, non chiede più il paragone con i dati della realtà. Tutti i perchè più plausibili intorno a questioni cromatiche e formali tacciono oziosi e inutili, quello sconvolgimento che sembrava caotico si tarmuta in ritmo, in misura solenne e maestosa. E' la vita nuova, la vita che era dentro e non fuori del Creatiore, che sorge malinconica o ridente dall'esistere sordo delle cose.
Ciò era tutto un impegno lento e travagliatissimo nei grandi quadri. Romantica certo la sua concezione delle qualità essenziali di un dipinto: la bellezza delle linee, la scelta del motivo, la poesia che doveva ispirare, la disposizione e i contrasti dei suoi elementi, come i caratteri, le ombre e le luci, la giusta e severa osservazione dei valori, romantica ma piena di un'umanità che si moltiplicava in sè sconfinando in una continua aspirazione all'infinito.

Dipingere, prima di morire, un gran cielo e una pianura immensa, cercare l'infinità nella limitatezza della realtà apparente, anzi conciliare l'una con l'altra nella creazione poetica, tutto questo era stato il tormento e la sua gioia, era lo stile della sua arte per oltre trent'anni.
A un amico scriveva: "Lavoro, faccio, cancello, come sempre e come sempre farò per tutta la vita. Avrò almeno tentato quanto per me potevo per far bene."

          Tale era il suo pudore di fronte alla bellezza



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